QUANDO IL MONDO DI P.P. PASOLINI DIVENTA QUADRO

Il morboso e insieme timoroso piacere di vederci, quali siamo o quali non siamo, in taluni specchi, è la fortuna offerta da arti quali la pittura e il cinema. Se poi l’una e l’altra si permeano, come nel caso della galleria di quadri che Giancarlo Tamagni dedica alle luci e alle tante ombre di «Salò o le 120 giornate di Sodoma», l’emozione si fa palpitante e uncinante ben oltre lo sguardo. In questi quadri, quasi tutti di dimensioni assai consistenti, le donne hanno animato il rude film di P.P.Pasolini, dando vita al simbolismo perverso di Sade, si affacciano o si intravedono appena. Eppure emanano una dirompente carica magnetica e persuasiva che, qua e là, affascina e insieme indispone per via di quelle linee, come tagli di mannaia, che tagliano o sezionano la tela. Sarà l’effetto miscelato di quella sua tecnica, definita da Tamagni «digital painting», ossia uno sposalizio ben riuscito fra l’intelligenza elettronica e l’intelligenza manuale, sarà che quei segni, quelle impronte, quelle tracce ci sono state e ancora segnano il percorso della letteratura e del costume dell’Italia del Secondo dopo guerra. Sarà quel che sarà, ma non ha torto Geno Pampaloni allorché annota: «Dopo Elio Vittorini la letteratura italiana non ha avuto un protagonista più stimolante e provocatorio di Pier Paolo Pasolini». Per quelli della mia generazione, che dopo quella tragica notte del 2 novembre 1975 si ritrovarono orfani di un’intelligenza intuitivamente rara, anche quando provocava quasi crisi di rigetto, non è difficile captare nei segni, tracce e impronte delle tele di Tamagni quegli stessi segni di violenza con cui le ruote di un’auto hanno sfigurato anche nella morte il corpo del poeta-scrittore-regista. Ahh, dove sei spirito di P.P.Pasolini? Senza la tua penna qualunque tentativo di riassumerti in un «pezzullo» giornalistico è insensato. In qualsiasi potere, dicevi, c’è qualcosa di belluino, che porta al possesso delle menti e dei corpi, usati come oggetti. Una teoria che non dispiace a chi ha un certo spirito anarchico. Il suo viluppo di idee è sfociato in un’attività intellettuale tesa a provocare la coscienza civile dell’Italia in un confronto collettivo sui mali del nostro tempo. A questo nodo di problemi dovrebbe essere ricondotta l’ultima produzione di Pasolini, che andrebbe comunque riletta unitariamente a «Salò o le 120 giornate di Sodoma», gli articoli delle «Lettere luterane» e il romanzo incompiuto «Petrolio». A proposito dell’ultima pellicola di Pasolini, al quale Giancarlo Tamagni si rifà con fantasmi ed emblemi morbosamente coinvolgenti, lo scrittore-regista affermò: «Faccio un film perverso per protesta contro la perversione che è ormai dappertutto». Che poi certuni abbiano incluso anche lui in quella perversione quasi autopunitiva è un altro discorso. Una cosa è certa: dopo Pasolini nessun altro intellettuale ha mai più camminato nelle periferie e si è immerso nel «paese reale» per svolgere un discorso tanto incisivo contro la disgregazione antropologica (più attuale che mai) prodotta da un consumismo e uno sviluppo economico drogati e da un cristallizzarsi di ipocrisie nazionali ed internazionali. Colpisce anzitutto, nelle tele di Tamagni, una estrema economia di segni. I baluginanti corpi femminili, intrisi di sensualità, come pure la bella gradazione di colori che si fà oscura ma non buia, tenebrosa ma non cupa sembra trovare spiragli di speranza in certe sfumature e tratti arancioni, gialli, blu: pennellate che stranamente possono ricordare le sfrangiare colorate di Marx Rothko e proiettare lo sguardo al di là del quadro. Anche attraverso queste tele si intuisce: P.P. Pasolini è più vivo ed indisponente che mai. Tamagni lo dice con opere dove «dentro» c’è la passione e la poesia, proprio come quelle che animavano il poeta-scrittore-regista a cui si è ispirato. C’è sogno e realtà, vita e morte, gioia e dolore, ma anche speranza. Non è poco, credeteci, in quest’epoca di facili e fragili miti.

Eros COSTANTINI